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Settimo congresso dell'IFA/documenti 3

 

La guerra permanente come paradigma del dominio statuale e capitalista

Oggi la logica del dominio e del profitto vede lo scontro di tutti i poteri tra di loro, unificati solo dalla volontà di affamare, umiliare e massacrare le classi subalterne. Per il resto, i meccanismi ideologici di un tempo - lo stesso "neo"liberismo imperante per ogni dove - sono relativamente secondari di fronte allo scenario di uno scontro feroce per il predominio, dove gli obiettivi sono la sopravvivenza immediata e la distruzione del nemico a qualunque costo, fosse pure la distruzione, di lì a non molto, delle stesse possibilità di vita sul pianeta.

In questi ultimi anni abbiamo assistito all'affermarsi del paradigma della "Guerra Permanente". Enunciato dopo gli spettacolari attacchi contro il Pentagono e le Torri gemelle, si è perfezionato nel periodo successivo definendo uno schema che pone la guerra come elemento costante del panorama politico. Il pretesto della "guerra al terrorismo" è divenuto la chiave di volta di una politica guerrafondaia diretta ad affermare le ragioni del più forte in spregio persino delle flebili "regole" del diritto internazionale, portando a probabilmente definitivo compimento l'esautorazione di ogni residua funzione mediatrice dell'ONU. 

La guerra permanente, preventiva, globale non è che l'ultima forma con la quale assicurare il dominio del più forte, affermando le "ragioni" di chi sfrutta, asserve, opprime la maggior parte della popolazione del pianeta. Queste "ragioni" si definiscono in base a poste in gioco ben evidenti per quanto misconosciute sul piano propagandistico. La principale è il controllo delle fonti energetiche (non solo petrolio, ma altresì acqua ed i minerali necessari per le tecnologie di controllo satellitare ad uso militare e civile) e delle vie di comunicazione attraverso le quali ne è garantito l'approvvigionamento. Lo strumento bellico impiegato nelle aree cruciali per gli interessi statunitensi garantisce agli USA il mantenimento di un primato che, sul piano strettamente economico è loro conteso dall'Europa, dal Giappone e da Russia, Cina, India, che, invece, non dispongono né dei dispositivi bellici né dell'autonomia necessari a contrastare le pretese egemoniche di Washington. In effetti una possibile chiave di lettura dell'escalation bellica degli ultimi dieci anni vede il ridimensionamento delle ambizioni degli storici "alleati" degli USA tra i non secondari scopi della smania bellicista dell'amministrazione americana. 

I paesi europei, hanno negli ultimi anni assunto il ruolo sempre più ambiguo e difficile di "alleati/competitori" degli Stati Uniti e delle loro politiche guerrafondaie. Privi di una forza d'urto bellica e di una capacità di coordinamento politico efficace i paesi dell'Unione Europea si barcamenano tra il tentativo di creare un polo militare e l'affiancamento in chiave competitiva delle politiche guerrafondaie degli USA. Appare perciò risibile la pretesa propagandistica dell'europeismo democratico di costruire un polo alternativo all'imperialismo USA.

L'Italia, abbandonato il non-interventismo tipico dell'era democristiana ed il ruolo di supporto dell'imperialismo anglo-americano integrato da quello di mediazione verso il mondo arabo, ha oggi un proprio ruolo imperiale attivo nello scacchiere Europeo e mondiale, con interessi e specificità da difendere che la localizzazione mediterranea le permettono: dal protettorato in Albania agli interventi di ricostruzione nelle zone disastrate dalle guerre (Bosnia, Kossovo, Afganistan...) alle lucrose commesse nella produzione e nello smercio di armi. Il riallineamento in chiave atlantica del governo di centro-destra è di fatto complementare al ruolo regionalmente imperialista dello Stato italiano, che può così tentare di contrattare la "mano libera" nei suoi protettorati in cambio del sostegno attivo alle politiche guerrafondaie degli Stati Uniti.

Dalla guerra umanitaria alla guerra permanente...

La fine della guerra fredda ha rappresentato una cesura importante non solo perché da un mondo bipolare si è passati ad un mondo unipolare ma anche e soprattutto perché ha imposto l'obbligo di ridisegnare l'immagine del nemico. Infatti lo sgretolarsi "dell'impero del male" rese impossibile pensare il nemico come colui che minaccia la tua esistenza, capace di dispiegare una potenza bellica tale da provocare la distruzione del pianeta e la fine della specie. Delle due caratteristiche peculiari dell'immagine del nemico, ossia l'essere cattivo e l'essere capace e voglioso di una minaccia diretta, la seconda era venuta meno, perché nessun pericolo forte pareva incombere sull'unica super potenza. Non era quindi per gli Stati Uniti ed i paesi suoi alleati più possibile prefigurare la guerra come estrema ratio difensiva contro una minaccia mortale. In questa prospettiva venne progressivamente disegnato un nuovo paradigma bellico, una rinnovata concezione del ruolo e della funzione delle macchine da guerra, che altrimenti potevano rischiare di vedere, sia pur mai esautorata, certo assai ridimensionata la propria funzione.

Venne così delineata la logica dell'ingerenza umanitaria che, anziché entrare in rotta di collisione con il vecchio principio della non-ingerenza negli "affari interni" di un paese, curiosamente lo affiancò. In tal modo quello dell'ingerenza umanitaria divenne l'alibi duttile, sempre disponibile anche se mai delineato in modo preciso in termini di diritto internazionale. All'ingerenza umanitaria che venne invocata per giustificare la guerra in Kosovo fece da contrappunto l'applicazione del principio della non-ingerenza negli affari interni per quello che riguardava il massacro in atto in Cecenia o la guerra contro le popolazioni curde, per non parlare del sempre più crudele conflitto in Palestina ed Israele. Il paradigma della guerra "umanitaria" fece riemergere il tema della guerra "giusta", la guerra combattuta per imporre una verità, un ordine, una visione del mondo. Una guerra sporca perché suo alibi sono le vittime e i profughi tra la popolazione civile e perché un simile alibi reggesse occorreva che vi fossero sempre più persone uccise, torturate, stuprate, sempre più gente senza casa e senza speranza, attonite pedine di un gioco deciso altrove.

Questo schema era tuttavia ancora scarsamente duttile perché la mobilitazione emotiva necessaria a raccogliere consensi tra le popolazioni dei paesi occidentali, e di quelle statunitensi in particolare, per la realizzazione delle imprese belliche "umanitarie" trovava il proprio limite proprio nell'evidente fallimento degli scopi dichiarati del conflitto. 

La guerra "umanitaria" ha mostrato con fin troppa evidenza di essere un meccanismo perverso che accentua i mali che pretende di curare, mettendo in scena un dramma reale, in cui il dolore, il sangue, la distruzione sono la scenografia oscena che nasconde agli occhi degli spettatori il retroscena, lo spazio scuro dietro le quinte dello spettacolo.

L'11 settembre ha rappresentato l'occasione, poco importa se favorita direttamente o ignobilmente sfruttata, per effettuare il salto di qualità ormai necessario all'espletamento della vocazione imperialista degli Stati Uniti, ormai decisi a buttare sul piatto delle "relazioni" internazionali la loro indiscussa superiorità sul piano militare. L'immagine del nemico viene nuovamente ridisegnata: cattivo, anzi cattivissimo, ed in grado di colpire direttamente e gravemente il territorio degli Stati Uniti e quello degli Stati alleati degli USA. Non coincide con un'organizzazione statuale ma è in grado di infiltrare, dirigere, permeare, allearsi con tutti gli Stati che non sono disponibili ad accettare la leadership globale degli Stati Uniti. Un tale nemico apre la via alla guerra permanente, contro gli Stati cosiddetti "canaglia" e contro tutti coloro che, anche all'interno, minacciano l'ordine mondiale. Questo nemico assume le vesti dell'integralista islamico. L'integralismo islamico permette di rifondare, secondo la classica opposizione amico/nemico la categoria di civiltà occidentale. È una categoria "vuota" che di fatto si definisce per opposizione perché priva di senso ed identità proprie. Vi si raggrumano infatti intorno il cristianesimo conservatore sia di matrice cattolica che protestante, il liberalismo più nichilista, tutte le tradizionali forme di nazionalismo, razzismo, populismo e la cultura democratica. 

In questa guerra, che nella sua versione più recente può anche essere "preventiva", il nemico non deve "dimostrare" con i fatti la propria natura perversa ma deve essere combattuto perché "è" perverso. La questione intorno alla quale si è costruita la "giustificazione" dell'attacco all'Iraq è in tal senso esemplare. Il presunto possesso di armi di distruzione di massa diviene ragione sufficiente allo scatenarsi della guerra. La palese asimmetria tra chi attacca (e sicuramente possiede armi di distruzione di massa) e chi viene attaccato ci riporta sul terreno della "guerra giusta" quella che viene fatta perché il nemico è cattivo e, quindi, potenzialmente pericoloso. È cattivo e, quindi, naturale alleato del terrorismo che colpisce donne, bambini, uomini inermi. Poco importa che la stessa definizione si possa applicare alle politiche degli Stati Uniti e dei loro alleati. Scopo della guerra non è forse l'instaurazione del "terrore" tra la popolazione dello Stato nemico al fine di fiaccarne la resistenza? La natura immorale della guerra ci riporta alla natura immorale degli Stati ed all'impossibilità di pensare un ordine realmente giusto del mondo semplicemente riformandone la struttura.

Guerra esterna e guerra interna

Il paradigma della "guerra permanente" miete vittime non solo tra le popolazioni degli Stati "canaglia" di turno ma anche tra gli oppositori dell'ordine costituito. I pacifisti, gli antimilitaristi, i lavoratori in lotta, gli antirazzisti sono equiparati ai terroristi con un'operazione propagandistica che ricorda da vicino le accuse di "collaborazionismo" col nemico rivolte nel secolo scorso a chiunque non accettasse la logica della guerra, del militarismo, degli Stati. 

Negli Stati Uniti la promulgazione del Patrioct Act, che di fatto ha reso possibili detenzioni extragiudiziali di semplici sospetti, nonché una sostanziale, ulteriore militarizzazione della vita sociale americana, è il segno inequivocabile che la politica di guerra infinita finisce con il permeare di se anche il cuore stesso della maggiore potenza. 

Le politiche securitarie degli ultimi anni hanno visto crescere su scala mondiale le misure repressive sul piano del "fronte interno", quello nel quale la posta in gioco è il disciplinamento forzato dei lavoratori, indigeni e migranti e l'ammutolimento di ogni opposizione.

Guerra Interna

I termini stessi della guerra interna sono cambiati in seguito alla disintegrazione del comunismo sovietico. Il crollo di un'"alternativa" al capitalismo privato ha consentito al sistema statale di presentare il capitalismo come l'unica strada per il futuro. Così come si è ridimensionata la minaccia di rivolta popolare. Il capitalismo, saldamente supportato dagli stati, ha iniziato un progressivo attacco alle modeste conquiste dei lavoratori caratterizzanti il modello socialdemocratico. Il thatcherismo ed il reaganismo hanno spinto a fondo l'attacco, che, dopo il crollo del regime sovietico, ha caratterizzato in modo costante il panorama politico e sociale. L'offensiva neoliberista si è esplicata su molti fronti. La precarizzazione del rapporto di lavoro ha spezzato la relazione stabile tra lavoratori normati che consentiva lo sviluppo di forme collettive di autorganizzazione e lotta. Con il pretesto della modernizzazione e della riduzione degli sprechi settori tradizionalmente sottratti alla logica capitalista sono divenuti occasione di sfruttamento. La privatizzazione dei servizi dalla sanità all'educazione, dai trasporti alla comunicazione ne è il segno distintivo.

La risposta a questo fronte di guerra aperto dal capitale contro l'umanità si è tradotta in un aumento dello scontro sociale a livello globale con la classe lavoratrice che ha dato vita a scioperi e lotte estese. Il movimento anarchico è stato sempre presente in queste lotte ed occorre che il suo ruolo si rafforzi mantenendo viva l'iniziativa e mettendo in chiara luce la natura globale dei processi in corso.

La nostra resistenza deve essere globale come il capitale.

Guerra interna e guerra esterna hanno lo stesso fronte e vengono combattute con la stessa determinazione e ferocia. La militarizzazione della vita sociale tramite provvedimenti che travalicano persino i limiti della "normalità" democratica, senza eccessivi contraccolpi sul piano della conflittualità interna, è stata resa possibile dalla gigantesca operazione anestetica innescata dell'"emergenza" terrorismo. La paura ne è il vettore potente che favorisce la criminalizzazione di ogni forma, anche minima, di effervescenza sociale. I recenti pacchetti securitari approvati in Francia e Gran Bretagna ne rappresentano un degno esempio, cui fa da puntuale contrappunto l'equiparazione tra terrorismo e lotte sociali in atto da tempo in diversi paesi.

Globalizzazione delle lotte

La cosiddetta globalizzazione economica è solo un'altra fase dello sviluppo del capitalismo, che tenta di estendere e a rendere più efficaci a livello planetario i tentacoli dello sfruttamento.

Per noi la globalizzazione deve significare la globalizzazione della lotta di classe su scala mondiale.

All'interno del movimento no-global, così come ci viene mostrato dai media, troviamo anche gruppi riformisti, cristiani, marxisti, socialdemocratici… che spesso hanno collaborato con il capitalismo rendendo la globalizzazione più forte. Sono gli stessi gruppi che lavorano per lo sviluppo del capitalismo nel terzo mondo entrando nelle comunità e spingendole alla distruzione delle proprie identità e dei mezzi di autosufficienza economica. La conseguente migrazione delle comunità autoctone più povere ne fa mano d'opera a basso costo per il mercato del lavoro del primo mondo abbassandone nel contempo lo stesso costo complessivo. Un mondo dove i migranti si vedono negata ogni libertà e dignità umana perché la mancanza di documenti ne fa dei clandestini. Di fronte a ciò l'IFA non può che confermare la propria identità mantenendo i propri obiettivi: autogestione generalizzata della società, abolizione della proprietà privata, costruzione di una società anarchica. È quindi importante sostenere i movimenti anarchici dei paesi poveri, aprendo autonomi canali di comunicazione e conoscenza, fuori dal sistema dei mass media, come primo passo per un più ampio radicamento dell'anarchismo.

Guerra alla vita

La produzione capitalista ha condotto ad una dichiarazione di guerra alla vita stessa, una guerra che minaccia la sopravvivenza dell'intero pianeta. Sono due i fronti su cui occorre impegnarsi. In primo luogo l'opposizione al saccheggio delle risorse, all'inquinamento ed alla devastazione ambientale frutto del modo di produzione capitalistico che mira solo al profitto, ignorando che anche gli esseri umani sono parte integrante dell'ecosistema: "nessuno mangia o respira denaro". L'altro fronte è quello dello sviluppo delle tecnologie secondo le direttive del potere. Il nucleare sia civile che militare che può portare alla lenta morte radioattiva come a devastanti distruzioni, oppure la manipolazione genetica che colonizza la vita saccheggiando i saperi tradizionali. 

L'impegno degli anarchici è a fianco delle popolazioni in lotta contro queste aggressioni.

Contro l'ordine morale e la religione

Ogni forma istituzionalizzata di credo non è che una un'istituzione gerarchica ed autoritaria mirante ad imporre i propri precetti morali alle persone: contro di essa gli anarchici si oppongono con forza. Pretendendo di incarnare un inesistente monopolio sui valori morali, in modo sottile le religioni mirano a ad interferire con la vita privata dei singoli. Le religioni indeboliscono l'autonomia degli individui, negando loro la capacità di risolvere in modo diretto i propri problemi. Chi crede nel paradiso che verrà non fa nulla per migliorare le proprie condizioni qui ed ora!

Si continuano a combattere guerre in nome di un dio, occultandone gli scopi di dominio e conquista, ben evidenti nello stretto legame tra le chiese e gli stati. 

Gli anarchici lottano contro la religione: cristiana, islamica… ed ogni altra. Il nostro grande rispetto per le scelte individuali non ci impedisce di opporci alle credenze religiose e ad ogni forma di gerarchia.

Oggi oltre agli attacchi inferti all'autonomia dei singoli dagli integralismi assistiamo all'emanazione di norme che erodono la libertà soprattutto delle donne e delle minoranze sessuali. Queste norme, spesso volute da settori che si proclamano laici, puntano al riaffermarsi di un'etica religiosa e conformista. Ne consegue un rafforzamento del patriarcato cui gli anarchici si oppongono come ad ogni forma di dominio.

 

Mozione sui punti 4 e 5 dell'ordine del giorno