La guerra permanente come paradigma del dominio statuale e capitalista
Oggi la logica del dominio e del profitto vede lo scontro di tutti i
poteri tra di loro, unificati solo dalla volontà di affamare,
umiliare e massacrare le classi subalterne. Per il resto, i meccanismi
ideologici di un tempo - lo stesso "neo"liberismo imperante per ogni
dove - sono relativamente secondari di fronte allo scenario di uno
scontro feroce per il predominio, dove gli obiettivi sono la
sopravvivenza immediata e la distruzione del nemico a qualunque costo,
fosse pure la distruzione, di lì a non molto, delle stesse
possibilità di vita sul pianeta.
In questi ultimi anni abbiamo assistito all'affermarsi del paradigma
della "Guerra Permanente". Enunciato dopo gli spettacolari attacchi
contro il Pentagono e le Torri gemelle, si è perfezionato nel
periodo successivo definendo uno schema che pone la guerra come
elemento costante del panorama politico. Il pretesto della "guerra al
terrorismo" è divenuto la chiave di volta di una politica
guerrafondaia diretta ad affermare le ragioni del più forte in
spregio persino delle flebili "regole" del diritto internazionale,
portando a probabilmente definitivo compimento l'esautorazione di ogni
residua funzione mediatrice dell'ONU.
La guerra permanente, preventiva, globale non è che l'ultima
forma con la quale assicurare il dominio del più forte,
affermando le "ragioni" di chi sfrutta, asserve, opprime la maggior
parte della popolazione del pianeta. Queste "ragioni" si definiscono in
base a poste in gioco ben evidenti per quanto misconosciute sul piano
propagandistico. La principale è il controllo delle fonti
energetiche (non solo petrolio, ma altresì acqua ed i minerali
necessari per le tecnologie di controllo satellitare ad uso militare e
civile) e delle vie di comunicazione attraverso le quali ne è
garantito l'approvvigionamento. Lo strumento bellico impiegato nelle
aree cruciali per gli interessi statunitensi garantisce agli USA il
mantenimento di un primato che, sul piano strettamente economico
è loro conteso dall'Europa, dal Giappone e da Russia, Cina,
India, che, invece, non dispongono né dei dispositivi bellici
né dell'autonomia necessari a contrastare le pretese egemoniche
di Washington. In effetti una possibile chiave di lettura
dell'escalation bellica degli ultimi dieci anni vede il
ridimensionamento delle ambizioni degli storici "alleati" degli USA tra
i non secondari scopi della smania bellicista dell'amministrazione
americana.
I paesi europei, hanno negli ultimi anni assunto il ruolo sempre
più ambiguo e difficile di "alleati/competitori" degli Stati
Uniti e delle loro politiche guerrafondaie. Privi di una forza d'urto
bellica e di una capacità di coordinamento politico efficace i
paesi dell'Unione Europea si barcamenano tra il tentativo di creare un
polo militare e l'affiancamento in chiave competitiva delle politiche
guerrafondaie degli USA. Appare perciò risibile la pretesa
propagandistica dell'europeismo democratico di costruire un polo
alternativo all'imperialismo USA.
L'Italia, abbandonato il non-interventismo tipico dell'era
democristiana ed il ruolo di supporto dell'imperialismo anglo-americano
integrato da quello di mediazione verso il mondo arabo, ha oggi un
proprio ruolo imperiale attivo nello scacchiere Europeo e mondiale, con
interessi e specificità da difendere che la localizzazione
mediterranea le permettono: dal protettorato in Albania agli interventi
di ricostruzione nelle zone disastrate dalle guerre (Bosnia, Kossovo,
Afganistan...) alle lucrose commesse nella produzione e nello smercio
di armi. Il riallineamento in chiave atlantica del governo di
centro-destra è di fatto complementare al ruolo regionalmente
imperialista dello Stato italiano, che può così tentare
di contrattare la "mano libera" nei suoi protettorati in cambio del
sostegno attivo alle politiche guerrafondaie degli Stati Uniti.
Dalla guerra umanitaria alla guerra permanente...
La fine della guerra fredda ha rappresentato una cesura importante
non solo perché da un mondo bipolare si è passati ad un
mondo unipolare ma anche e soprattutto perché ha imposto
l'obbligo di ridisegnare l'immagine del nemico. Infatti lo sgretolarsi
"dell'impero del male" rese impossibile pensare il nemico come colui
che minaccia la tua esistenza, capace di dispiegare una potenza bellica
tale da provocare la distruzione del pianeta e la fine della specie.
Delle due caratteristiche peculiari dell'immagine del nemico, ossia
l'essere cattivo e l'essere capace e voglioso di una minaccia diretta,
la seconda era venuta meno, perché nessun pericolo forte pareva
incombere sull'unica super potenza. Non era quindi per gli Stati Uniti
ed i paesi suoi alleati più possibile prefigurare la guerra come
estrema ratio difensiva contro una minaccia mortale. In questa
prospettiva venne progressivamente disegnato un nuovo paradigma
bellico, una rinnovata concezione del ruolo e della funzione delle
macchine da guerra, che altrimenti potevano rischiare di vedere, sia
pur mai esautorata, certo assai ridimensionata la propria funzione.
Venne così delineata la logica dell'ingerenza umanitaria che,
anziché entrare in rotta di collisione con il vecchio principio
della non-ingerenza negli "affari interni" di un paese, curiosamente lo
affiancò. In tal modo quello dell'ingerenza umanitaria divenne
l'alibi duttile, sempre disponibile anche se mai delineato in modo
preciso in termini di diritto internazionale. All'ingerenza umanitaria
che venne invocata per giustificare la guerra in Kosovo fece da
contrappunto l'applicazione del principio della non-ingerenza negli
affari interni per quello che riguardava il massacro in atto in Cecenia
o la guerra contro le popolazioni curde, per non parlare del sempre
più crudele conflitto in Palestina ed Israele. Il paradigma
della guerra "umanitaria" fece riemergere il tema della guerra
"giusta", la guerra combattuta per imporre una verità, un
ordine, una visione del mondo. Una guerra sporca perché suo
alibi sono le vittime e i profughi tra la popolazione civile e
perché un simile alibi reggesse occorreva che vi fossero sempre
più persone uccise, torturate, stuprate, sempre più gente
senza casa e senza speranza, attonite pedine di un gioco deciso altrove.
Questo schema era tuttavia ancora scarsamente duttile perché
la mobilitazione emotiva necessaria a raccogliere consensi tra le
popolazioni dei paesi occidentali, e di quelle statunitensi in
particolare, per la realizzazione delle imprese belliche "umanitarie"
trovava il proprio limite proprio nell'evidente fallimento degli scopi
dichiarati del conflitto.
La guerra "umanitaria" ha mostrato con fin troppa evidenza di essere
un meccanismo perverso che accentua i mali che pretende di curare,
mettendo in scena un dramma reale, in cui il dolore, il sangue, la
distruzione sono la scenografia oscena che nasconde agli occhi degli
spettatori il retroscena, lo spazio scuro dietro le quinte dello
spettacolo.
L'11 settembre ha rappresentato l'occasione, poco importa se favorita
direttamente o ignobilmente sfruttata, per effettuare il salto di
qualità ormai necessario all'espletamento della vocazione
imperialista degli Stati Uniti, ormai decisi a buttare sul piatto delle
"relazioni" internazionali la loro indiscussa superiorità sul
piano militare. L'immagine del nemico viene nuovamente ridisegnata:
cattivo, anzi cattivissimo, ed in grado di colpire direttamente e
gravemente il territorio degli Stati Uniti e quello degli Stati alleati
degli USA. Non coincide con un'organizzazione statuale ma è in
grado di infiltrare, dirigere, permeare, allearsi con tutti gli Stati
che non sono disponibili ad accettare la leadership globale degli Stati
Uniti. Un tale nemico apre la via alla guerra permanente, contro gli
Stati cosiddetti "canaglia" e contro tutti coloro che, anche
all'interno, minacciano l'ordine mondiale. Questo nemico assume le
vesti dell'integralista islamico. L'integralismo islamico permette di
rifondare, secondo la classica opposizione amico/nemico la categoria di
civiltà occidentale. È una categoria "vuota" che di fatto
si definisce per opposizione perché priva di senso ed
identità proprie. Vi si raggrumano infatti intorno il
cristianesimo conservatore sia di matrice cattolica che protestante, il
liberalismo più nichilista, tutte le tradizionali forme di
nazionalismo, razzismo, populismo e la cultura democratica.
In questa guerra, che nella sua versione più recente
può anche essere "preventiva", il nemico non deve "dimostrare"
con i fatti la propria natura perversa ma deve essere combattuto
perché "è" perverso. La questione intorno alla quale si
è costruita la "giustificazione" dell'attacco all'Iraq è
in tal senso esemplare. Il presunto possesso di armi di distruzione di
massa diviene ragione sufficiente allo scatenarsi della guerra. La
palese asimmetria tra chi attacca (e sicuramente possiede armi di
distruzione di massa) e chi viene attaccato ci riporta sul terreno
della "guerra giusta" quella che viene fatta perché il nemico
è cattivo e, quindi, potenzialmente pericoloso. È cattivo
e, quindi, naturale alleato del terrorismo che colpisce donne, bambini,
uomini inermi. Poco importa che la stessa definizione si possa
applicare alle politiche degli Stati Uniti e dei loro alleati. Scopo
della guerra non è forse l'instaurazione del "terrore" tra la
popolazione dello Stato nemico al fine di fiaccarne la resistenza? La
natura immorale della guerra ci riporta alla natura immorale degli
Stati ed all'impossibilità di pensare un ordine realmente giusto
del mondo semplicemente riformandone la struttura.
Guerra esterna e guerra interna
Il paradigma della "guerra permanente" miete vittime non solo tra le
popolazioni degli Stati "canaglia" di turno ma anche tra gli oppositori
dell'ordine costituito. I pacifisti, gli antimilitaristi, i lavoratori
in lotta, gli antirazzisti sono equiparati ai terroristi con
un'operazione propagandistica che ricorda da vicino le accuse di
"collaborazionismo" col nemico rivolte nel secolo scorso a chiunque non
accettasse la logica della guerra, del militarismo, degli Stati.
Negli Stati Uniti la promulgazione del Patrioct Act, che di fatto ha
reso possibili detenzioni extragiudiziali di semplici sospetti,
nonché una sostanziale, ulteriore militarizzazione della vita
sociale americana, è il segno inequivocabile che la politica di
guerra infinita finisce con il permeare di se anche il cuore stesso
della maggiore potenza.
Le politiche securitarie degli ultimi anni hanno visto crescere su
scala mondiale le misure repressive sul piano del "fronte interno",
quello nel quale la posta in gioco è il disciplinamento forzato
dei lavoratori, indigeni e migranti e l'ammutolimento di ogni
opposizione.
Guerra Interna
I termini stessi della guerra interna sono cambiati in seguito alla
disintegrazione del comunismo sovietico. Il crollo di un'"alternativa"
al capitalismo privato ha consentito al sistema statale di presentare
il capitalismo come l'unica strada per il futuro. Così come si
è ridimensionata la minaccia di rivolta popolare. Il
capitalismo, saldamente supportato dagli stati, ha iniziato un
progressivo attacco alle modeste conquiste dei lavoratori
caratterizzanti il modello socialdemocratico. Il thatcherismo ed il
reaganismo hanno spinto a fondo l'attacco, che, dopo il crollo del
regime sovietico, ha caratterizzato in modo costante il panorama
politico e sociale. L'offensiva neoliberista si è esplicata su
molti fronti. La precarizzazione del rapporto di lavoro ha spezzato la
relazione stabile tra lavoratori normati che consentiva lo sviluppo di
forme collettive di autorganizzazione e lotta. Con il pretesto della
modernizzazione e della riduzione degli sprechi settori
tradizionalmente sottratti alla logica capitalista sono divenuti
occasione di sfruttamento. La privatizzazione dei servizi dalla
sanità all'educazione, dai trasporti alla comunicazione ne
è il segno distintivo.
La risposta a questo fronte di guerra aperto dal capitale contro
l'umanità si è tradotta in un aumento dello scontro
sociale a livello globale con la classe lavoratrice che ha dato vita a
scioperi e lotte estese. Il movimento anarchico è stato sempre
presente in queste lotte ed occorre che il suo ruolo si rafforzi
mantenendo viva l'iniziativa e mettendo in chiara luce la natura
globale dei processi in corso.
La nostra resistenza deve essere globale come il capitale.
Guerra interna e guerra esterna hanno lo stesso fronte e vengono
combattute con la stessa determinazione e ferocia. La militarizzazione
della vita sociale tramite provvedimenti che travalicano persino i
limiti della "normalità" democratica, senza eccessivi
contraccolpi sul piano della conflittualità interna, è
stata resa possibile dalla gigantesca operazione anestetica innescata
dell'"emergenza" terrorismo. La paura ne è il vettore potente
che favorisce la criminalizzazione di ogni forma, anche minima, di
effervescenza sociale. I recenti pacchetti securitari approvati in
Francia e Gran Bretagna ne rappresentano un degno esempio, cui fa da
puntuale contrappunto l'equiparazione tra terrorismo e lotte sociali in
atto da tempo in diversi paesi.
Globalizzazione delle lotte
La cosiddetta globalizzazione economica è solo un'altra fase
dello sviluppo del capitalismo, che tenta di estendere e a rendere
più efficaci a livello planetario i tentacoli dello sfruttamento.
Per noi la globalizzazione deve significare la globalizzazione della lotta di classe su scala mondiale.
All'interno del movimento no-global, così come ci viene
mostrato dai media, troviamo anche gruppi riformisti, cristiani,
marxisti, socialdemocratici… che spesso hanno collaborato con il
capitalismo rendendo la globalizzazione più forte. Sono gli
stessi gruppi che lavorano per lo sviluppo del capitalismo nel terzo
mondo entrando nelle comunità e spingendole alla distruzione
delle proprie identità e dei mezzi di autosufficienza economica.
La conseguente migrazione delle comunità autoctone più
povere ne fa mano d'opera a basso costo per il mercato del lavoro del
primo mondo abbassandone nel contempo lo stesso costo complessivo. Un
mondo dove i migranti si vedono negata ogni libertà e
dignità umana perché la mancanza di documenti ne fa dei
clandestini. Di fronte a ciò l'IFA non può che confermare
la propria identità mantenendo i propri obiettivi: autogestione
generalizzata della società, abolizione della proprietà
privata, costruzione di una società anarchica. È quindi
importante sostenere i movimenti anarchici dei paesi poveri, aprendo
autonomi canali di comunicazione e conoscenza, fuori dal sistema dei
mass media, come primo passo per un più ampio radicamento
dell'anarchismo.
Guerra alla vita
La produzione capitalista ha condotto ad una dichiarazione di guerra
alla vita stessa, una guerra che minaccia la sopravvivenza dell'intero
pianeta. Sono due i fronti su cui occorre impegnarsi. In primo luogo
l'opposizione al saccheggio delle risorse, all'inquinamento ed alla
devastazione ambientale frutto del modo di produzione capitalistico che
mira solo al profitto, ignorando che anche gli esseri umani sono parte
integrante dell'ecosistema: "nessuno mangia o respira denaro". L'altro
fronte è quello dello sviluppo delle tecnologie secondo le
direttive del potere. Il nucleare sia civile che militare che
può portare alla lenta morte radioattiva come a devastanti
distruzioni, oppure la manipolazione genetica che colonizza la vita
saccheggiando i saperi tradizionali.
L'impegno degli anarchici è a fianco delle popolazioni in lotta contro queste aggressioni.
Contro l'ordine morale e la religione
Ogni forma istituzionalizzata di credo non è che una
un'istituzione gerarchica ed autoritaria mirante ad imporre i propri
precetti morali alle persone: contro di essa gli anarchici si oppongono
con forza. Pretendendo di incarnare un inesistente monopolio sui valori
morali, in modo sottile le religioni mirano a ad interferire con la
vita privata dei singoli. Le religioni indeboliscono l'autonomia degli
individui, negando loro la capacità di risolvere in modo diretto
i propri problemi. Chi crede nel paradiso che verrà non fa nulla
per migliorare le proprie condizioni qui ed ora!
Si continuano a combattere guerre in nome di un dio, occultandone
gli scopi di dominio e conquista, ben evidenti nello stretto legame tra
le chiese e gli stati.
Gli anarchici lottano contro la religione: cristiana, islamica… ed
ogni altra. Il nostro grande rispetto per le scelte individuali non ci
impedisce di opporci alle credenze religiose e ad ogni forma di
gerarchia.
Oggi oltre agli attacchi inferti all'autonomia dei singoli dagli
integralismi assistiamo all'emanazione di norme che erodono la
libertà soprattutto delle donne e delle minoranze sessuali.
Queste norme, spesso volute da settori che si proclamano laici, puntano
al riaffermarsi di un'etica religiosa e conformista. Ne consegue un
rafforzamento del patriarcato cui gli anarchici si oppongono come ad
ogni forma di dominio.
Mozione sui punti 4 e 5 dell'ordine del giorno
|